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E se il futuro fosse senza acciaio? Il porto mira alla Via della Seta.

7 Nov 2019

E se alla fine il futuro di Taranto fosse non tanto l’Ex Ilva, o ArcelorMIttal che dir si voglia, ma semmai riconvertirsi come terminale della Nuova Via della Seta? L’idea esiste, quantomeno in testa al ministro degli Esteri Luigi Di Maio che, prima di ripartire dall’Italia dopo la missione al China International Import Expo di Shanghai, ha dichiarato: “Si firma l’accordo tra Porto di Trieste e CCCC, colosso cinese delle costruzioni. Significa che a Pechino sono interessati a investire da noi per la Via della Seta marittima, guardano anche a Taranto“.

Musica per le orecchie di molti in Puglia. Negli scorsi mesi, quando il presidente Xi Jinping è arrivato in Italia per la firma del memorandum of understanding sulla Belt and Road, diversi esponenti pugliesi del primo governo Conte, ma anche esperti e operatori, avevano sollecitato il nostro esecutivo a includere Taranto negli accordi commerciali con Pechino. Allora non se n’era fatto nulla, anche perché l’Italia era stata costretta a un parziale stop ai progetti sui porti dopo le rimostranze degli Stati Uniti sull’opportunità dell’ingresso dei cinesi nelle infrasttrutture strategiche di un paese alleato.

Ora però il tema torna prepotentemente di attualità. E lo fa proprio nei giorni in cui è esploso il caos intorno al futuro dell’Ex Ilva, riaprendo l’atavica diatriba tra occupazione e salute. Non è un caso che Di Maio stia cercando di inserire il dossier Taranto nel rapporto con Pechino. D’altronde il Movimento Cinque Stelle, di cui è attualmente il leader politico, ha in passato molto insistito sulla necessità di bonifica e riconversione dell’acciaieria, arrivando a immaginare un futuro senza di essa.

Non è neppure un caso che, al fianco della 160 aziende italiane presenti al grande evento di Shanghai, ci sia anche uno spazio espositivo della Regione Puglia. Non solo. Un paio di settimane fa il porto di Taranto ha partecipato alla fiera China Logistic and Transportation Fair di Shenzhen, cercando di posizionarsi come hub naturale del Mediterraneo per la logistica della Belt and Road e più in generale delle strategie commerciali di Pechino. Il tutto nell’ambito di una missione di categoria orchestrata dall’Agenza Ice e le principali associazioni di categoria e che ha visto la partecipazione congiunta anche dei porti di Genova, Livorno, Gioia Tauro e Venezia.

Una missione che ha portato all’attenzione degli operatori cinesi un portafoglio di 44 asset con progetti di investimento diretto per circa 2,2 miliardi di euro. Taranto sta cercando di ritagliarsi un ruolo da protagonista all’interno di questa strategia. D’altronde, l’autorità portuale ha sigliato nel 2011 un gemellaggio culturale con quella di Shenzhen. Anche per questo Pechino aveva messo gli occhi su Taranto come proprio terminale mediterraneo, salvo poi virare sul Pireo in Grecia dopo qualche incertezza italiana di troppo.

Ora si prova a riannodare il filo, già parzialmente riannodato negli scorsi mesi con l’annuncio della collaborazione tra Cosco e i turchi di Yilport per lo sviluppo del porto di Taranto. Ma l’obiettivo è quello di estendere la partecipazione cinese per un piano di ampio respiro. Il problema, o l’opportunità, è che per riuscirci serve un progetto strategico a largo raggio che coinvolga anche le infrastrutture e la rete ferroviaria, al momento ancora piuttosto arretrata nell’area rispetto ad altre regioni italiane.

La Cina può essere interessata al porto di Taranto se la città di Taranto può diventare un vero hub logistico interconnesso con il Centro e il Nord Italia e dunque il cuore dell’Europa, proponendosi allo stesso tempo come interfaccia con l’Africa settentrionale, ruolo al quale per la verità aspira anche Palermo. La necessità di una strategia più ampia la si ricava anche dai dati. Secondo il centro Studi e Ricerche per il Mezzogiorno, finanziato da Intesa San Paolo, l’Italia è la terza potenza marittima in Europa, dopo Olanda e Regno Unito. Ma il terzo posto diventa sedicesimo se invece della quantità di merce movimentata si prende in considerazione il Liner Shipping Connectivity, un indice usato nel contesto internazionale per misurare la connettività marittima.

Proprio a causa della scarsa connettività, il porto di Taranto ha perso il 12,2 per cento del volume di interscambio commerciale tra il 2013 e il 2017. E infatti, almeno per ora, la Cina si è concetrata sui porti del Nord che sono molto meglio collegati al resto d’Europa. A Shanghai il porto di Trieste ha siglato un accordo con il colosso CCCC, mentre a dicembre verrà inaugurato il nuovo terminal container di Vado Ligure, controllato al 49,9 per cento da entità cinesi (Cosco con il 40 e Qingdao Port International Development con il 9,9 per cento). Il tutto mentre i porti del Nord Europa continuano ad aumentare i propri, già esorbitanti, numeri.

Mentre il governo Conte si riunisce con i vertici di ArcelorMIttal serve un grande sforzo di immaginazione per pensare a una Taranto diversa, interconnessa e funzionale. Ma forse qualche volta un problema può essere anche trasformato in un’opportunità.

twitter11@LorenzoLamperti

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